Fonte: La Voce di New York

Intervista con Michele Cecchini, autore del romanzo Per il bene che ti voglio, in cui il protagonista Antonio Bevilacqua, lucchese emigrato negli anni Venti in California, diventa Tony Drinkwater e abita una terra di mezzo, quella di chi non è ancora americano e allo stesso tempo non è più italiano.

Italiese, la nostra bella lingua di 'Merica!

“Io la storia di Antonio Bevilacqua vorrei raccontarla così, senza partire dall’inizio, tuttavia non so se sia il caso di cominciare proprio dalla morte. Il fatto è che vorrei iniziare da un finale. La vita di un uomo è costellata di finali e quello della morte è solo uno dei tanti”. Citazione parte dell’incipit del libro di Michele CecchiniPer il bene che ti voglio 

Michele Cecchini, italianista, è nato a Lucca nel 1972 e risiede a Livorno, dove è docente di materie letterarie in una scuola superiore. Dopo aver pubblicato nel 2010, con la casa editrice Erasmo, il suo primo romanzo,Dall’aprile a shantih, sempre per la stessa casa editrice Cecchini pubblica nel 2015 il romanzo Per il bene che ti voglio, la storia di Antonio Bevilacqua, che alla fine degli anni Venti si trasferisce per un periodo a Hollywood, dove viene scritturato in un film di Charlie Chaplin come controfigura. Sul set, in pratica, ha il compito di sostituire Chaplin nella predisposizione delle scene. Nel linguaggio come nella vita Antonio Bevilacqua, nel frattempo divenuto Tony Drinkwater, abita una terra di mezzo, quella di chi non è ancora e allo stesso tempo non è più, e parla italiese, una lingua con termini misti tra italiano e inglese. Il romanzo possiede anche un piccolo vocabolario di termini di italiese/italiano, ampiamente usati da Cecchini nella sua narrazione.

 

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Michele Cecchini

Professor Cecchini, il suo romanzo Per il bene che ti voglio, che ha per tema l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, racconta di un lucchese, Antonio Bevilacqua, che alla fine degli anni Venti decide di emigrare a San Francisco per fare carriera nel teatro e poi, a Hollywood, nel cinema. Durante gli anni ’30 gli italiani emigravano solo per necessità economiche o anche espatriavano per motivi politici, come l’antifascismo? 

 

“Nel mio romanzo si parla di un’emigrazione non dettata da esigenze economiche ma artistiche. Ci tenevo a rifuggire dal cliché del povero emigrante con la valigia di cartone, su cui già tanto è stato detto e scritto. Tutto sommato, il protagonista del mio libro rivendica il diritto e la libertà di spostarsi, a prescindere dal tipo di esigenza.

Peraltro non si tratta di un’anomalia: i nostri connazionali spesso trovarono terreno fertile nell’ambito artistico. Prendiamo il cinema: anche senza scomodare grandi personaggi del calibro, che ne so, di Rodolfo Valentino, troviamo tanti italiani anche tra le maestranze. Un esempio su tutti: Vincenzo Pelliccione, abruzzese, controfigura schermatica di Charlie Chaplin in tanti dei suoi film”.

Alcuni elementi del suo romanzo si basano sulla realtà ma altri sono di fantasia. Antonio Bevilacqua è un personaggio vero o inventato?

“Il protagonista del mio libro è frutto della mia fantasia. In generale però il contesto che lo circonda è reale, o quanto meno, plausibile.

Oltre a personaggi del mondo dello spettacolo (Chaplin, Ferlinghetti, Migliaccio…), nel libro compaiono anche il banchiere Amedeo Giannini, l’imprenditore Angelo Petri, Carlo Barsotti, Direttore del giornale Il progresso Italo-americano e molti altri. Tutta gente che effettivamente trovò la “Merica”, “fece moneta” come si diceva allora per indicare il raggiunto benessere economico.

Per tutto questo ho effettuato ricerche e soprattutto ho letto molte lettere degli emigranti, in modo da assorbirne il linguaggio e il sistema di pensiero. Avere tra le mani la lettera di un emigrante è esperienza di per sé emotivamente molto forte: al di là del contenuto, le righe stentate, storte, le continue correzioni e molti altri elementi raccontano della fatica e dello sforzo di rimanere in qualche modo ancorati alla terra di origine. Cosa non certo agevole: per ricevere una lettera di risposta ci volevano mesi, tant’è che spesso metà del contenuto di ogni lettera fa riferimento al contenuto della lettera precedente: “ma l’avete ricevuta la lettera dove vi dicevo questo… e quest’altro…?”.

Sembra dunque avere trovato la sua ‘Merica’ nel ‘muvinpicce’: con questa espressione, storpiata dall’inglese ‘moving pictures’, Antonio indica il cinema.” Queste parole evidenziano una lingua inventata, l’italiese. Può spiegare la poetica mista dell’italiano con l’inglese che evidenzia uno sforzo degli immigrati di integrarsi in un mondo molto diverso da quello di origine? 

“Coloro che partivano per l’America (o la “Merica”, come dicevano all’epoca), inevitabilmente si contaminavano con un altro mondo, per cui non era più possibile mantenere l’identità di partenza, a cui bisognava rinunciare. Allo stesso tempo, non erano ancora pronti per una piena integrazione nel luogo di arrivo. I primi emigranti dunque rimangono sospesi in una sorta di limbo, finiscono per essere “non più” e allo stesso tempo “non ancora”.

Ecco, in questa “terra di mezzo” rientra pure la lingua: anche qui gli emigranti si trovano “a metà”, perché parlano appunto ‘italiese’, ovvero un miscuglio di italiano e inglese. Non dicevano “lavoro”, ma “giobbo” (dajob), non “strada” ma “stritta” (street), “sciumecca” invece di “calzolaio” (dashoes maker)  e così via. Questo miscuglio, che potrà apparire goffo, a mio avviso detiene una forte carica poetica, perché in sé contiene il commovente tentativo di adeguarsi e integrarsi in una realtà tanto diversa – ben più ricca ed evoluta – rispetto a quella di provenienza. Una terra linguistica di mezzo, insomma, simbolo di un’identità non ancora americana e neppure più italiana”.

Sono poche le opere di narrativa che contemplano l’uso dell’italiese linguistico, invece nei film sugli italoamericani questa lingua viene evidenziata in modo non positivo. Nel suo romanzo sono evidenziati gli stereotipi e i pregiudizi affrontati dagli immigrati italiani?

“Nel corso della stesura, ho cercato di mantenere uno sguardo il più distaccato possibile – del resto il romanzo non è scritto in prima ma in terza persona, perché a raccontare le vicissitudini di Antonio è un amico. Ho dunque ricreato un mondo, quello degli emigranti in terra di “Merica”. Ciò mi ha permesso di indagare un po’ della loro vita, delle loro abitudini, i mestieri svolti, il modo di trascorrere il tempo libero, anche il cibo che mangiavano. Spesso tutto ciò veniva condiviso, costituiva un fatto collettivo. Invece il mio personaggio, che ha intenzione di fare carriera in ambito artistico, non può rintanarsi in un microcosmo che riproduca su piccola scala la sua comunità di origine: è costretto ad affrontare “la Merica” direttamente, senza mediazioni, quindi è condannato alla solitudine. Inclusi i pregiudizi con cui gli italiani dovettero spesso fare i conti: dai controlli severissimi ad Ellis Island fino agli epiteti insultanti. Quello più diffuso, “Dago”, non ha un’etimologia certa, ma le ipotesi che sono state formulate la dicono lunga. Per fare qualche esempio: da “Dingo”, il cane autraliano; da “digger”, il coltello; da “they go”, ad indicare persone che non avevano fissa dimora, fino a “until the day goes”, perché gli italiani spesso venivano assunti solo ‘a giornata’”.

A proposito di italiese quante sono le parole integrate nel piccolo vocabolario in calce?

“Qualche centinaio, cioè quelli che si trovano all’interno del testo. Tuttavia in apertura ho rivolto un invito ad ignorare quanto più possibile il vocabolario nel corso della lettura, in modo da lasciarsi guidare dalle sonorità di quella che è stata definita ‘lingua della sopravvivenza’.

In qualche modo la mia vuole essere anche, nel suo piccolo, un’operazione di salvaguardia di questo piccolo patrimonio che nel corso del tempo è destinato a perdersi.

Ai fini della narrazione, era poi una scelta obbligata: un’opera che vuole essere di memoria, non può non tenere conto della realtà anche linguistica all’interno della quale le vicende narrate hanno luogo.

Io ho scritto un articolo sull’italoamericano , la lingua incrociata italiano-inglese parlata dagli emigrati italiani di prima generazione, in particolare da quelli nello stato di New York, e molti lettori mi hanno scritto con interesse sul fenomeno linguistico. Lei trova differenza tra l’italiese di New York e quello di Los Angeles? Può fare degli esempi?

“Tecnicamente, l’italiese di per sé varia sia in relazione al luogo di arrivo, cui lei accenna, ma anche al luogo di provenienza: l’italiese dei calabresi è molto diverso da quello dei veneti, per dire. Ciò perché spesso le competenze linguistiche di chi emigrava erano limitate al solo dialetto. Certi cortocircuiti linguistici a volte non a caso riguardano il lessico italiano stesso: gli emigranti dicevano di essere costretti ad attraversare il grande “Luciano”, perché pronunciare “oceano” era troppo difficile.

In ogni caso, trattandosi di un romanzo e non di un trattato di linguistica, ho potuto godere di una certa libertà di movimento. Ho attinto da studi di settore ma anche dal mio vissuto privato.

Mio nonno Umberto nel 1923 sbarcò a Ellis Island e fu uno di quelli che finì ‘a pala e piccone’. Nel corso del tempo, il ramo da parte di mio padre si è spostato quasi per intero a San Francisco. Dalle nostre parti è cosa abituale: dicono che ci sono più lucchesi a San Francisco che a Lucca…

Ecco, ogni tanto venivano a trovarci questi parenti, i classici “zii d’America”, persone che a me bambino parevano piovute da un altro pianeta, vestite in modo così diverso dal nostro e che parlavano una lingua tutta loro. Scrivere di queste persone è stato un po’ riattraversare un pezzo della mia storia familiare. Il romanzo è dedicato a questa prima generazione di emigranti: al loro coraggio, alla loro intraprendenza”.

Insegnando nelle scuole pubbliche di NY ho conosciuto nipoti di italiani immigrati prima della seconda Guerra Mondiale, i quali avevano modificato il loro cognome rendendolo non italiano. Nel suo libro, Per il bene che ti voglio, Antonio Bevilacqua cambia nome diventa Tony Drinkwater: secondo lei qual è il vero motivo che ha spinto gli immigrati italiani a cambiare il loro nome o cognome?

“Il cambiamento del nome rientra a pieno titolo nel tentativo, che personalmente ritengo molto poetico perché spesso disperato, di integrarsi, di diventare a tutti i costi qualcos’altro quando ancora non se ne hanno i requisiti.

Non si trattava di assumere un nomignolo né di uno pseudonimo, ma un altro nome proprio, che era il segno di una nuova identità. Da Antonio Bevilacqua a Tony Drinkwater: la traduzione letterale potrà far sorridere, ma se si voleva davvero ‘pensare alla mericana’, come i nostri connazionali si obbligavano a fare, bisognava partire dalla propria persona, quindi dal nome, ricostruendosi un’identità che non fosse parallela alla precedente ma la sostituisse. Solo così si poteva sperare di trovare il proprio posto in America.

Non si tratta di una curiosa anomalia, perché i casi erano frequenti. Pensiamo ai Morgan o Martin che provengono dai nostri “Morganti” o “Martini”. Ma è possibile scovare origini italiane anche in versioni meno immediatamente deducibili.  Un tizio, Adam Jacknell, in realtà si chiamava Adamo Giacanelli, Robert Yans era invece Roberto Iannuzzi. Un altro da Chierichetti era divenuto Cherchotts, da pronunciare con il ch dolce, all’americana appunto”.

Professor Cecchini, lei ha girato l’Italia per le presentazioni del libro, ospite di librerie, centri studio, musei dell’emigrazione, trasmissioni. Il 27 novembre ha presentato Per il bene che ti voglio a “La Torre di Abele” di Torino. Un posto noto a famosi scrittori italiani: libreria di riferimento di Italo Calvino, e palazzo dove De Amicis visse per qualche anno e scrisse il libro Cuore. Ci può descrivere la sua emozione nel presentare il suo libro Per il bene che ti voglio in quella libreria?

“Una bellissima esperienza. Certi luoghi sono carichi di un’atmosfera particolare e di fascino, accedervi è un’esperienza decisamente gratificante. Del resto, posso estendere questo tipo di considerazione a tanti dei luoghi che mi hanno accolto, segno dell’interesse che ancora ruota attorno al tema dell’emigrazione. Posso dire di più: non c’è stata presentazione dove non sia stato avvicinato da qualcuno che aveva il desiderio di raccontarmi vicissitudini familiari analoghe a quelle dei miei personaggi. Vicende spesso assai dolorose, peraltro.

Purtroppo ho la sensazione che con il fenomeno dell’emigrazione, che ha riguardato milioni di italiani, ancora non si siano fatti per bene i conti. I manuali di storia, per dire, dedicano all’emigrazione nel migliore dei casi un paragrafo. Comprendere e conoscere quanto accaduto, viceversa, aiuterebbe non poco. Basti pensare ai figurinai, i ragazzetti che giravano per le strade delle città statunitensi cercando di vendere le loro statuine di Garibaldi, di Lincoln o di qualche santo. Oppure al baliatico: ragazze che partorivano un bambino, lo affidavano alla “Casa della maternità” e poi partivano per svezzare con il loro latte i bambini dei ricchi, cedendo parte dei compensi all’uomo che le aveva messe incinta e che a malapena conoscevano. Ecco, ci sono una miriade di storie di questo tipo da raccontare. Purtroppo invece il rischio è che cali il silenzio e si finisca per dimenticare”.